"Le Sequenze Oniriche di Lillo Turco” - Diego Guadagnino
Canicattì conosce già da tempo
Domenico Turco per le sue opere di grandissimo pregio poetico e letterario, ma
non conosce ancora l'altro fratello artista, Lillo, che stasera si presenta per
la prima volta alla città con una mostra di grafica. Un'arte, quella di Lillo
Turco www.lilloturco.it, che per la pregnanza di miti e simboli che la percorrono risulta
strettamente connessa ai temi della poesia di Domenico.
Si direbbe che le opere dei
due fratelli, pur nelle loro diversificate peculiarità espressive, nascano da
un comune sentire; ed è un sentire che ci porta al grande poeta inglese William
Blake, caro a entrambi, il quale seppe coniugare poesia e pittura illustrando i
suoi poemi con miniature e incisioni di stupefacente bellezza. Davanti alla
produzione poetica e figurativa dei due giovani artisti canicattinesi, viene da
pensare che l'anima del poeta inglese, si sia scissa in due nella loro
ispirazione. Entrando nel merito dei disegni di Lillo, tutti eseguiti con
semplici penne biro, e perciò di grafica si tratta e non di pittura (la grafica
è segno, la pittura è materia), vorrei partire dalla etichetta di
"surrealista metafisico", non perché la condivida e neanche per
entrare in polemica con Domenico, che l'ha coniata e gliela l'ha applicata, ma
perché mi consente di definire meglio lo stile e i contenuti delle opere qui
esposte. L'arte di Lillo Turco è surrealista solo se vista da lontano.
La scuola surrealista
teorizzò, e in questo si risolse, l'inconsueto attraverso l'accostamento di
immagini e oggetti al di fuori dei tracciati della razionalità o
dell'abitudine. Dalì, pittore surrealista per antonomasia, attraverso tale
tecnica, sospesa tra la scoperta dell'inconscio e i manifesti del surrealismo,
tra Freud e Breton, nient'altro si propone che stupire, scandalizzare,
sorprendere l'interlocutore; uno scopo, questo che non rientra nei propositi di
Lillo Turco, le cui opere traboccano di simboli e di allusioni al mito così
carichi di senso che non possiamo fare a meno, al loro cospetto, di formulare
interrogativi e azzardare risposte. In breve, sono disegni che rimandano a
culture, decodificano miti, tessono un discorso, instaurano un dialogo,
palpitano di una loro coerenza interna, tutti elementi che li discostano
esemplarmente dal dettato surrealista strictu sensu e ne fanno piuttosto
un'arte simbolista venata di indizi esoterici.
Prendo a mo' di esempio
"Varco tra i mondi". E' un quadro di notevole potenza discorsiva.
Abbiamo quattro figure in primo piano, viste di spalla, in una atmosfera
luttuosa di fronte a quella che davanti a loro è la porta, ovvero il varco che
divide l'aldiquà e l'aldilà. Cos'è la morte se non un varco tra dimensioni
contigue ma diverse sul piano metafisico? E noi viviamo questo trapassare con
l'angoscia dell'ignoto e il dolore del distacco, perché nulla sappiamo del
luogo in cui c'immette il passo fatale. Notiamo che il "varco tra i
mondi" a sua volta è delimitato da una cornice di fuoco, e il simbolismo
del fuoco trova molteplici espressioni nei miti d'Oriente e d'Occidente; il
fuoco è l'Agni della tradizione Indù, che concepisce la danza di Shiva, dio
della distruzione e della creazione, all'interno di un cerchio di fiamme; ma è
anche lo Spirito Santo della Pentecoste nella liturgia cattolica.
Questa ricchezza simbolica ne
fa uno degli elementi più ricorrenti in Domenico Turco, "Incendiatevi,
vite, il tempo è distruzione" recita una sua poesia de I limiti e l'immenso. Ma c'è ancora di
più. L'artista ha sospeso una maschera alla destra del varco, e la maschera
rappresenta l'aspetto visibile che l'essere assume quando sceglie di esprimersi
nel tempo. Noi, con la nostra identità, col nostro karma, non siamo che
maschere (possiamo dire anche pirandellianamente, visto che siamo nella terra
di Pirandello) votate, volontariamente o involontariamente, a dare forma
all'essere nel divenire. Questa sostanza temporale che noi chiamiamo
"maschera" accompagna la nostra presenza nel suo tragitto verso gli
estremi orizzonti del visibile, verso il varco tra mondi. Ma la porta occupata
da due figure, maschio e femmina, nell'atto di oltrepassarne la soglia, nel
contesto di una mostra che Lillo ha voluto chiamare "Sequenze
oniriche", rievoca anche l'immagine virgiliana del libro sesto dell'Eneide
dove il poeta latino parla di due porte del sonno, la porta di corno e la porta
d'avorio, la prima dei sogni veri, la seconda di quelli falsi.
Storicamente e ufficialmente è stato Giorgio De Chirico a dare questo nome ad
un certo suo modo di dipingere, però come succede con tante correnti anche
letterarie – vedi il Romanticismo, che storicamente si appartiene
all'Ottocento, ma ciò non toglie che sue manifestazioni non si possano trovare
anche nella letteratura precedente - anche per la pittura metafisica si può
dire che essa non viene alla luce per la prima volta con De Chirico. La pittura
metafisica, che intende coniugare atto e stasi, estasi e quotidianità, è
lezione che già si trova nell'arte italiana del Trecento e del Quattrocento,
nei cosiddetti "primitivi italiani". Metafisici sono Giotto e Paolo
Uccello, metafisico è Simone Martini nel famoso Guidoriccio da Fogliano
all'assedio di Montemassi, metafisico è Beato Angelico le cui figure sembrano
riflettere l'immobilità e il movimento che Dio assembla nella sua ineffabile
essenza di "motore immobile". Questa è la pittura metafisica. E Lillo
è artista metafisico nello stesso senso e alla stessa maniera in cui Domenico
lo è da poeta quando scrive"…cerco oltre i limiti/ del mondo un mondo più
totale,/ un orizzonte più splendente…/ Intanto vagano, vagano i mondi!"
Assumendo questi versi a canone ermeneutico, le opere di Lillo Turco ci
appaiono come rappresentazioni di soggetti e di concetti che fungono da veicolo
e da stimolo per farci sentire la realtà di altre dimensioni.
Le trasformazioni di Circe è
un disegno che si guadagna l'attenzione per la sua discorsività mitica e
simbolica. Vi troviamo l'aspetto demoniaco, negativo dell'anima femminile. Tra
le tante proiezioni della donna create dall'Occidente ne spiccano due: quella
di Circe e quella di Beatrice, figure antitetiche e totali, uscite dai
contenuti archetipici dell'uomo, che, in maniera del tutto autoreferenziale,
vede nella donna un mezzo per conoscere le proprie paure o per coltivare i
propri sogni. Allora la donna è colei che lo può innalzare al piano angelico,
ma può anche degradarlo a una condizione subumana e animalesca. Dando forma e
figura a questo mito, l'artista, accanto ai volti-variazioni di Circe ha posto
dei teschi e delle carte da gioco, proprio a suggerire l'idea del vizio e della
perdizione.
Un altro filone è quello del
paesaggio. I paesaggi di Lillo Turco non sono di maniera. Egli riesce a dare
plasticità allo stupore, a quell'arresto improvviso della funzione percettiva
della coscienza, nel momento in cui si focalizza su un oggetto o su
un'atmosfera che ha l'attributo dello straordinario rispetto all'abituale.
Lillo Turco, con geniale intuizione, ha chiamato un suo paesaggio Splendore e
stasi. In realtà è un titolo che può estendersi a tutti i suoi paesaggi, dove
si ha una percezione quasi allucinata, da rivelazione improvvisa, delle pietre,
degli alberi, delle montagne, dei cieli, degli orizzonti. Ed è tutta un'esperienza
visionaria che lo ricongiunge al mondo poetico di Domenico e lo esprime.
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